
Le recenti vicende americane, con l’assalto al Campidoglio come in una rivoluzione dell’Ottocento e un presidente che rifiuta di accettare il risultato delle elezioni e accende la miccia della rivolta, hanno scosso un po’ tutti. Rimane un senso di smarrimento e di incredulità, quasi faticando a distinguere la verità dalla fiction.
Invece, ahinoi, è tutto vero. Come è vera la crisi per la pandemia che stiamo vivendo, come il virus che paralizza il mondo, come le torme di ragazzini che si affrontano nelle piazze. Stiamo vivendo un passaggio storico, nulla sarà davvero più come prima e chissà quando torneremo ad una certa normalità. È materiale per gli storici del futuro, che avranno molto da studiare sui primi decenni del terzo millennio.
Intanto, quello che vediamo accadere, pure oltre oceano, riguarda pure noi. Sta facendo molto discutere la decisione dei social network, su tutti Facebook e Twitter, di sospendere l’account di Donald Trump perché le sue parole sono state un incitamento alla violenza e tra le cause dei drammatici eventi del 6 gennaio. Mentre c’è chi sostiene la legittimità della scelta, sostenendo che Trump sia comunque e solo un utente che ha violato le regole del buon vivere sui social, altri sottolineano che si tratti di una censura bella e buona che mina la libertà di espressione. Si distinguono anche voci importanti tra le istituzioni europee: il portavoce di Angela Merkel ha dichiarato che “la Cancelliera ritiene problematico che sia stato bloccato in modo completo l’account Twitter di Donald Trump”, mentre il ministro francese dell’Economia, Bruno Le Maire, ha criticato che “la regolamentazione dei colossi del web non può avvenire attraverso la stessa oligarchia digitale”.
L’argomento è complesso e ci conduce al cuore della nostra società odierna, perennemente connessa, “on life”, dove le libertà nella rete, più che dalle leggi dello Stato, è gestita dai regolamenti delle società che gestiscono i social. Provocatoriamente, qualcuno si chiede se sia più potente il presidente degli Stati Uniti o Mark Zuckerberg? Dove sta davvero il potere e la libertà? Ormai siamo abituati a utilizzare la rete per le nostre discussioni ma i social non sono le pubbliche piazze che immaginiamo, sono piuttosto dei grandi salotti dove la padrona di casa impone agli ospiti un galateo da rispettare e rimane nel diritto di far accomodare alla porta chi non lo rispetta. In questo senso è ammissibile che un account venga sospeso per comportamenti non idonei oppure – e qui sta una questione cruciale sulla libertà – perché si esprime in maniera non gradita. Ma gradita a chi? Qual è il potere dell’algoritmo che decide cosa vedere e cosa non vedere?
Alcune domande sono allora doverose. Realisticamente, esistono oggi alternative alla comunicazione sui social, dove è cresciuta la disintermediazione e si è alzata la voce degli ignoranti, per dirla con Umberto Eco, ed impera il “politicamente corretto”? E poi, qual è la nostra identità sui social e come la gestiamo? Oltre i nostri ruoli, la nostra presenza si confonde spesso tra i vari profili con cui siamo presenti e ciò vale a maggior ragione per chi ricopre un ruolo istituzionale. L’account di Trump che è stato sospeso era quello suo personale, non quello dell’istituzione che ricopre. Egualmente, sin anche dalle nostre parti, numerosi esponenti politici e amministratori utilizzano il proprio account privato per comunicazioni istituzionali o comunque di pubblico interesse, talvolta eccedendo nei toni e confondendo i diversi livelli di espressione e le relative responsabilità. Evidentemente, l’America non è poi così lontana, un uso consapevole e attento dei social appare doveroso per tutti.