La nostra “terra promessa”

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La crisi per la pandemia è l’occasione per un nuovo modello di sviluppo economico secondo etica, equità, inclusione e sostenibilità

di Enrico Contini

Ogni terra promessa ha il suo esodo.
Il nostro “esodo” ha avuto inizio nei primi giorni di febbraio ed ancora non si intravede la meta.
Doveva “andare tutto bene”, ma nella strada fatta abbiamo già perso 65.000 nostri concittadini, a cui dovremmo aggiungere tutti i deceduti indiretti del Covid: tutti quelli affetti da patologie gravi od improvvise che il nostro sistema sanitario non ha potuto più gestire e, conseguentemente, ha lasciato indietro e sacrificato.
In questo scenario il ritornello, quasi come un mantra, che i nostri politici (quasi tutti) ci propinano in continuazione è: “teniamo duro per tornare quanto prima alla nostra vita pre Covid”; teniamo duro per “tornare a correre”; teniamo duro per tornare alle nostre produzioni, ai nostri mercati, alle nostre transazioni finanziarie, ai nostri profitti. Tutto ciò ci viene presentato come obiettivo da raggiungere, come meta a cui anelare, come “terra promessa”, appunto. E sebbene in tutto questo ci sia senza dubbio del giusto (non fosse altro per il sacrosanto diritto delle donne e degli uomini di questo nostro Paese ad un lavoro dignitoso ed equamente retribuito), c’è da domandarsi se questo sia realmente l’obiettivo a cui tendere, e non cogliere l’occasione per rifonderci in un nuovo ordine economico, più governato, più equo, più inclusivo, più solidale, più sostenibile, più etico.
Ci è stato spiegato come la bufera abbia avuto modo di scatenarsi da quell’immenso paese che è la Cina; un paese con 1,4 miliardi di persone da sfamare, in cui convivono ancora ampie contraddizioni (sacche di arretratezza nelle aree periferiche del paese ed un consumismo sfrenato e rampante nelle grandi metropoli), ed usi alimentari che affondano le radici nella povertà arcaica delle campagne, e che dalle campagne si sono poi trasferiti nelle grandi città seguendo il flusso dei milioni di inurbati, e comunque perpetuati fuori dai più comuni standard di sicurezza per la salute collettiva.
Il contatto prolungato tra specie animali strappate al loro habitat originario e le migliaia-milioni di individui assiepati nei grandi centri urbani ha creato le condizioni perché il salto di specie fosse cosa realizzabile.
Certamente non è cosa da poco sfamare e sostenere i bisogni di una popolazione così numerosa; lo sanno benissimo gli uomini di quel governo, che da almeno un decennio hanno pianificato ed efficacemente dato corso a quello che potremo definire l’”imperialismo economico” cinese; non c’è paese del continente Africano o dell’America meridionale e centrale dove i cinesi non abbiano consolidato partecipazioni per l’estrazione e la produzione di materie prime, siano queste minerali o alimentari: così, quota parte di raccolti, di pescato, di legnami, di minerali metallici e fossili, prende la strada della Cina.
L’obiettivo è duplice: da un lato non depauperare il patrimonio di materie prime autoctono, mentre d’altro lato è con-solidata la consapevolezza che produrre in territorio cinese gran parte di tutto quanto occorrente al fabbisogno inter-no avrebbe una ricaduta ambientale nel paese non sostenibile.
La rivista Nature, nel numero del 22 maggio 2019, ha pubblicato i risultati di un’indagine condotta dai ricercatori dell’Università di Bristol: il buco dell’ozono andrà a chiudersi con un ritardo di dieci anni rispetto a quanto preventivato. Perché? Perché uno dei distretti industriali (non meno di venti fabbriche) insediato nella Cina orientale, attivo nella produzione di pannelli poliuretanici per l’edilizia, dal 2012 immette in atmosfera settemila tonnellate/anno di triclorofluorometano (CFC-11), sostanza letale nei confronti dell’ozono atmosferico ed oltretutto molto potente nel da-re origine a gas serra (1 tonnellata di CFC-11 equivale a 5000 tonnellate di CO2).
Tutto quanto sopra per rendere ancora più palesi le incoerenze ed i limiti dell’assetto economico perseguito dal paese asiatico, che del “mercato globale” è allo stesso tempo sia tenace fautore che vittima, per via delle regole e condizionamenti che questo implica; regole e condizionamenti che, beninteso, non procurano unità ma divisione, acuiscono differenze anziché livellarle, incentivano benessere per pochi e marginalità per molti, poiché la sola entità ammessa alla crescita è il mercato e coloro che lo governano. Retorica, luoghi comuni, speculazioni? Non credo; semmai la presa d’atto che se il Vecchio Continente, giusto a mero titolo esemplificativo, continuerà ad importare milioni di quintali di carni bovine dai paesi dell’America meridionale, si renderà indirettamente responsabile della distruzione degli habitat naturali di quei paesi e della emarginazione delle popolazioni residenti.
In termini ancora più chiari e di validità generale potremo dire che l’esasperare, il portare all’estremo le produzioni, siano esse industriali che agricole od alimentari, già procura la cancellazione di molti habitat e la soppressione delle biodiversità, creando le condizioni favorevoli per le crisi sanitarie, e poi economiche e sociali, come quella che stiamo attraversando.
Occorre, dunque, che il nostro Paese avvii senza indugio la transizione verso un sistema economico di cui sono già state tracciate le peculiarità alle righe precedenti, ed in sintesi argine per la tutela degli ambienti naturali e sistema trainante per la crescita sociale.
La strada, il nuovo “esodo”, non sarà facile né scontata; occorrerà molta determinazione, coraggio e lungimiranza disinteressata; riporre tutte queste attese unicamente nella classe dirigente potrebbe rivelarsi deludente e vano.
L’invito accorato non può che essere, pertanto, per tutte le donne e uomini di buona volontà del Paese, perché con-giuntamente, senza differenziazioni di età o convinzioni, nei modi e nelle forme che menti e cuori illuminati suggeriranno, assumano la responsabilità degli uomini e della nostra terra.

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