Laici nella città e nella Chiesa. Intervista al sociologo Diotallevi dell’Università Roma Tre, incontro alla Facoltà Teologica venerdì 26 maggio
di Mario Girau
Più soldi e benessere uguale più figli; meno soldi e stipendi di sopravvivenza quindi natalità in calo. Sembra questa la regola aurea scaturita dal monitoraggio imperfetto sul fenomeno dello spopolamento oggi in Italia. Su queste equazioni si intende costruire le politiche demografiche per il nostro paese. Una logica da baby boom, quando in pieno miracolo economico (nel 1964) si registravano in Italia oltre un milione di nati e 2,7 figli medi per donna (oggi 1,25 e in Sardegna 0,95 figli per donna: è il terzo anno di fila che l’isola è l’unica Regione con fecondità sotto quota 1). Allo stesso modo, il crollo delle nascite ha combaciato con l’esplosione del debito pubblico dagli anni ’90 in poi e le crisi economiche del 2008 e del 2011.
“La drastica riduzione della mortalità infantile e l’aumento della speranza di vita – dice il sociologo Luca Diotallevi dell’Università Roma Tre – rendono meno percepibile i livelli del dramma demografico, che dovrebbe letteralmente allarmare perché la popolazione che diminuisce è sempre più vecchia». Il 7,5% degli italiani ha più di 80 anni; più del 30% degli abitanti del nostro paese è over 60 anni. “Di fronte a questi dati è fuorviante decidere che avere o non avere figli dipenda esclusivamente da incentivi economici e da nuove leggi. A questo proposito il dibattito pubblico è persino più misero di quanto non lo siano le politiche”.
La storia demografica dimostra che le società dove si fanno più figli non sono necessariamente più ricche di quelle dove se ne fanno meno.
È vero che lasciar nascere un figlio o una figlia equivale ad una perdita: di risorse materiali che potrebbero essere investite altrimenti, di gradi e spazi di libertà importanti. La scelta di fare o non fare figli non dipende semplicemente da quanto costano, ma anche e forse soprattutto da quanto percepisco che mi tolgono di ciò che altrimenti potrei avere. Le aspettative sono un dato socio-culturale essenziale. Hanno un valore straordinario e non si devono demonizzare.
Va respinta, dunque, la tesi che non si fanno figli per egoismo?
Sì. Il problema è un altro. Abbiamo ben chiaro che cosa i figli tolgono, ma non quel che danno. Dall’ignoranza di quest’ultimo fattore deriva un calcolo assai diffuso, ma fatalmente sbagliato. Egualmente è un errore terribile pensare a un figlio come a un diritto, perché non si ha mai diritto ad “avere” un’altra persona. È altresì un errore pensare che un figlio od una figlia servano come assicurazione per il futuro: per la nostra vecchiaia, per la continuazione della specie o della nazione.
C’è una risposta credibile e concreta alla domanda “perché fare un figlio” in una società poco amica dei giovani?
Decidere di avere un figlio significa riconoscere di avere la possibilità di fare una cosa grandissima: donare vita; non solo godere della vita, ma anche donare la possibilità di goderne. E ancora, significa impegnarsi ancor di più in quella che la tradizione chiamava “amicizia coniugale”, cioè accettare di condividere qualcosa di importante con un’altra persona, foss’anche attraverso e oltre i rovesci della vita.
È finita una cultura della natalità?
Sì, e non è un male viste tutte le volte che ha costretto le donne a far figli per le esigenze dei campi, delle fabbriche o delle armi; visti tutti gli alibi che ha offerto a tanti uomini per evitare di fare i padri. Dopo quella vecchia, un’altra cultura della natalità s’è imposta: quella nella quale siamo immersi, che ha espresso valori importanti e che sta accompagnando la nostra società verso la scomparsa. Non solo però verso la scomparsa dell’Italia e degli italiani, ma anche e soprattutto verso un impoverimento secco della nostra autocoscienza, non aumentando dunque, ma riducendo la nostra libertà di scelta.
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Pubblicato su “Sulcis Iglesiente Oggi”, numero 18 del 21 maggio 2023