Chiesa e società, a che punto è la crisi?

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Intervista ad Andrea Riccardi, autore del libro “La Chiesa brucia”, ordinario di Storia contemporanea e fondatore della Comunità di Sant’Egidio

di Roberto Comparetti

Parte dall’immagine della Cattedrale di Notre Dame di Parigi in fiamme il libro “La Chiesa brucia – Crisi e futuro del cristianesimo”, di Andrea Riccardi, ordinario di Storia contemporanea e fondatore della Comunità di Sant’Egidio. “Nel vedere l’incendio di Notre Dame – esordisce Riccardi – molti si sono chiesti se fosse solo il rogo della Cattedrale di Parigi o se fosse la Chiesa a bruciare, non solo in Francia ma anche in Europa”.
In che senso?
La crisi della Chiesa che noi viviamo da anni, è come se in quel rogo fosse arrivata a un punto finale: i parametri vitali come vocazioni religiose, pratica domenicale, numero dei consacrati sembrerebbero essere sotto il livello di guardia. È una sensazione diffusa, che preoccupa non solo i cattolici, ma anche chi sa che la Chiesa è una realtà importante della nostra società, in un mondo sempre meno anticristiano.
Si spieghi meglio.
Si tratta di coloro che vivono un umanesimo cristiano e non è praticante. La domanda che viene rivolta è a che punto sia arrivata la crisi.
Il libro, in alcuni tratti, sembra invitare alla lotta contro l’indifferenza e l’irrilevanza?
Attenzione: irrilevanza non significa potere politico ma qualcosa di più. Si tratta del diritto di esistere come soggetto profetico, capace di poter dire cose nella società e di attrarre. L’irrilevanza diventa il grigiore, spesso di una Chiesa che fatica a gestire il proprio presente, si rannicchia in un angolo come una minoranza e non pensa al futuro. Tutto ciò è dovuto a diversi motivi, come la crisi delle vocazioni, la marginalità delle donne, l’entusiasmo post concilio che è stato archiviato.
Lei parla anche della pandemia e della chiusura delle chiese nella prima serrata dell’Italia, che ha visto, come scrive Lei un “declassamento”, come se l’istituzione sia stata considerata incapace di gestire le misure di prevenzione e non sia ritenuta un interlocutore.
In quell’occasione la Chiesa è stata considerata alla stregua di società commerciali e la chiusura delle chiese è stato un fatto unico nella storia dell’Occidente, perché nemmeno durante la guerra sono state chiuse. Un fatto unico che si è accompagnato, direi, ad un silenzio della Chiesa e in barba al Concordato, agli accordi tra Stato e Chiesa. Di fatto si è imposto un diktat, generando poi la serie di celebrazioni online, che ha provocato un cambiamento importante, tanto che i fedeli faticano a ritornare in chiesa da quando sono state riaperte. Le chiese così si sono dimostrate luoghi sicuri, e non pericolosi veicoli focolai del virus. La Chiesa è stata di fatto trattata male, con un rigore eccessivo.
Secondo Lei il cristianesimo “più che un’istituzione da conservare debba essere una realtà del nostro futuro”.
Credo di sì, perché sono convinto, come scrivo nel mio libro, che è necessario prendere coscienza della situazione, perché è molto seria, non ci si può voltare dall’altra parte e non si può rabberciare il presente. Il futuro c’è, perché il cristianesimo è una riserva di speranza, di fede, di carità da scoprire, attraverso le vie del futuro. Ha detto padre Men, martire del KGB nell’Unione Sovietica, “il cristianesimo non è solo quello che abbiamo vissuto, c’è tanto da scoprire, c’è un giacimento profondo”. O il cristianesimo nei nostri Paesi andrà per questa via, cito la poesia di padre Turoldo “liberami dal grigio”, oppure si ridurrà a minoranze residuali.
Nel 1968 nasceva la comunità di Sant’Egidio. I movimenti sono un frutto anche del Concilio e la loro varietà è simile ad un giardino con tanti fiori. Quale il loro valore per la Chiesa?
I Movimenti hanno una loro storia, diversa tra di loro, alcuni, come i Focolarini, nascono prima del Concilio e altri dopo. Si tratta di espressioni di vitalità carismatica della Chiesa. Quello che secondo me è molto importante è che la Chiesa non si riduca a stanca istituzione ma moltiplichi nelle parrocchie, nei movimenti nelle comunità di tutti i tipi, cammini di esistenza. Una pluralità viva, non una realtà smorta, al riparo dalle istituzioni. L’altro aspetto è il problema della visione. Giovanni Paolo II diceva in una sua poesia “L’uomo soffre soprattutto per mancanza di visione”, e mi sembra che oggi manchi proprio questa visione di futuro.
L’attualità ci ha riproposto l’ennesima tragedia del mare. Voi siete gli attuatori dei corridoi umanitari. Perché non vengono utilizzati sistematicamente come strumento per una immigrazione regolare?
L’ultima tragedia in mare ci scuote tutti, perché abbiamo lasciato il Mediterraneo vuoto di presenze che possono aiutare. Il corridoio umanitario, realizzato con le Chiese protestanti ed evangeliche, è una grande risposta per fare venire in sicurezza e legalità le persone più fragili. Per questo occorre riprendere in mano il tema delle quote e dei flussi regolari verso il nostro Paese. In caso contrario si svilupperà sempre più la drammaticità di percorsi fatti dagli scafisti. Per questo occorre una politica dell’immigrazione che tenga conto dei bisogni demografici dei nostri Paesi.

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