Abitiamo il nostro tempo, per rendere visibile il Vangelo

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Dialogo con don Luigi Maria Epicoco, teologo e scrittore, ospite del ritiro vocazionale a Iglesias dal 13 al 14 marzo

di Valeria Carta
foto di Efisio Vacca

Classe 1980, don Luigi Maria Epicoco è presbitero, teologo e scrittore, svolge il suo ministero nella diocesi dell’Aquila. Insegnante universitario, responsabile dell’Ufficio Cultura, don Luigi ha dialogato con noi su alcuni temi forti del nostro tempo.

Iniziamo dall’argomento del ritiro: tentati nella speranza. Perché?

Penso che sia perché la nostra attualità sta mettendo a dura prova la speranza, intesa come cercare di intuire che infondo a questa tempesta, a questa notte che tutti stiamo vivendo, c’è un’alba, c’è un altro giorno. Bisogna avere speranza soprattutto quando non si vede nulla.

La grande affluenza al ritiro testimonia il bisogno dell’uomo di sentire parole di speranza?

C’è una sete di Gesù nella gente che è tremenda. Quando si intercetta questa sete inevitabilmente si crea un’attrattiva. La mia persona non conta nulla. Quando si riescono a fare emergere le domanda che ognuno si fa’ allora c’è un ascolto, un grande desiderio di incontrare una parola che è quella del Vangelo.

Tu in questo senso sei uno strumento di Dio. Come vivi questo compito che ti è stato affidato?

Sono grato al Signore perché mi accorgo della grazia che mi viene data e anche della sproporzione. Ossia di come la mia umanità sia veramente sproporzionata rispetto al dono che mi viene dato di poter annunciare questa parola. Però cerco di mantenere sempre un certo distacco interiore perché io so che la gente cerca Cristo. Scherzando, alla mia comunità dico che non mi sento un pastore, mi sento il cane del pastore.

Tra i tanti libri pubblicati, l’ultimo è quello dedicato a San Giuseppe, definito “un uomo di speranza”. Che valore assume la sua figura in quest’anno particolare?

La genialità del Papa è stata esattamente questa: proporci San Giuseppe in un anno così. Perché lui nel Vangelo abita le circostanze più difficili. Quando le cose si complicano ecco emergere San Giuseppe come un uomo di cui Dio si fida. Il Papa lo definisce in un modo bellissimo: l’uomo dal coraggio creativo. Significa che è un uomo che in fondo ha coraggio ma in maniera creativa perché non ha altri strumenti. Insomma è un uomo creativo nella sua concretezza, ma anche coraggioso perché bisogna avere molto coraggio per mandare all’aria i propri progetti e fare spazio a quelli di Dio.

Può essere un esempio per noi, in questo tempo in cui abbiamo dovuto rinunciare a tanti nostri progetti?

Credo di sì. Davanti a delle circostanze difficili, guardando lui si capisce come bisogna affrontarle. Ma allo stesso tempo lui è custode e protettore delle persone in difficoltà. Non è semplicemente qualcuno che ci ispira ma è anche qualcuno a cui rivolgersi.

Come si può trasmettere la speranza di cui abbiamo parlato?

Io non ho ricette, però mi accorgo che quando una persona prende sul serio Gesù Cristo, fa spazio a Gesù Cristo, si innesca dentro di lui il meccanismo dello Spirito Santo che suggerisce delle strade nuove. I grandi Santi che hanno segnato la storia della Chiesa sono persone che hanno abitato il loro tempo e hanno trovato una maniera tutta loro di rendere visibile il Vangelo. Per diverso tempo noi ci siamo ispirati a loro ma la vera ispirazione è dire: quale è l’originalità a cui siamo chiamati in questo momento? Questo è un grande interrogativo.

Pensando ai giovani, come credi che si possano intercettare i loro bisogni?

Prima di tutto credo che un errore sia quello di settorializzare troppo la pastorale. Noi dobbiamo lavorare come comunità, che è fatta di giovani e di anziani, di bambini e di adulti. Bisogna tenere insieme queste diverse sfaccettature. Diversamente diventiamo un’azienda, creiamo prodotti ad hoc, e non ci accorgiamo che in fondo o cresciamo come un corpo o non cresciamo. La seconda cosa è che dovremmo tornare ad abitare i luoghi educativi, tipo la scuola. Forse noi siamo fuori da questo contesto ormai.

Ci puoi fare un esempio?

I millenials hanno un alfabeto antropologico completamente diverso anche dalla mia generazione, per quanto io possa essere ancora considerato in una fascia giovane. Ma noi dobbiamo andare li, non per vendere un prodotto, ma per renderlo comprensibile. Non si tratta di fare propaganda, o di pensare che il social sia la svolta pastorale: è poter capire un alfabeto e abitarlo. Io stesso mi accorgo che un pensiero sul Vangelo, quotidiano, può diventare virale. Come è possibile? Perché parla all’uomo e non importa se ha 80 o 15 anni.

Capita di incontrare persone che “invidiano” la nostra fede o il fatto che abbiamo “qualcuno a cui rivolgerci”. Come credi ci si debba porre davanti a questo?

Queste persone non si accorgono che già il fatto di parlare con “chi ha fede” significa rivolgersi a qualcuno. Il Vangelo di Giovanni dice che nessuno viene al Padre se non per mezzo del Figlio. Che tradotto dovrebbe essere “nessuno viene al Padre se non per mezzo dell’umanità del Figlio”. Significa che Dio per agire usa l’umanità di qualcuno. La tua umanità è il mezzo attraverso cui le persone possono entrare in una relazione con Dio. Offrire delle sane relazioni è il primo modo di evangelizzare.

Secondo te l’idea di vocazione oggi è in crisi?

Sì, perché noi confondiamo l’onniscienza di Dio con la predestinazione. Il fatto che Dio sappia tutto non significa che si è sostituito alla nostra libertà. Una persona fa una qualunque scelta vocazionale perché si accorge che quella particolare strada lo aiuta ad amare in massimo grado rispetto a come è fatto lui. Ognuno di noi deve fare discernimento rispetto al proprio potenziale di amore. Io invece penso che noi ancora facciamo scelte vocazionali rispetto al “riempire i vuoti”, ad aggiustarci le cose. Vogliamo vocazioni rassicuranti, ma la rassicurazione è una cosa diversa dalla felicità. Le persone felici spesso sono molto inquiete, invece quelle rassicurate sono i morti. La rivoluzione della vocazione è esattamente questa: tu non trasmetti se non quello che vivi. Quando una vocazione vince? Quando produce felicità e non importa la fatica perché sei felice.