Etica e capitale. Un ritratto del manager di Fca scomparso a Zurigo lo scorso 25 luglio
di Annalisa Atzei
La storia della Fiat non appartiene solo ai libri della grande industria e dell’economia aziendale, perché in fondo è la storia di milioni di italiani: dei tanti operai che dal 1899 varcano la soglia degli stabilimenti, ma anche di tutti coloro che almeno una volta si sono seduti al volante di una vettura prodotta dalla “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. Nel bene e nel male l’industria torinese ha tracciato la storia dell’economia italiana, e non solo. È anche per questo forse che la morte di Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat dal maggio del 2004, giunta così inattesa e improvvisa, ha suscitato in tutti un interesse particolare e ha riacceso di colpo i riflettori su una delle esperienze industriali più imponenti del panorama economico mondiale. Quando nel 2004 Marchionne arriva alla Fiat, la situazione è disastrosa: l’azienda perdeva più di due milioni di euro al giorno con i conti tenuti in piedi da un enorme prestito concesso dalle banche che metteva a serio rischio il futuro del Lingotto. Cresciuto in Canada, tre lauree, un master e diverse esperienze in grandi aziende all’estero, nonostante in Italia fosse quasi uno sconosciuto, si presentava con un curriculum che parlava da sé. All’indomani della morte di Umberto Agnelli, il Consiglio di Amministrazione, all’epoca presieduto da Luca di Montezemolo, decide che il destino della Fiat venga affidato alle cure di questo talentuoso manager. In quattordici anni Marchionne riesce a risanare i bilanci in azienda, restituendo i debiti alle banche e ricreando le condizioni favorevoli al rilancio del gruppo Fiat nello scenario finanziario mondiale. Nel 2009, nonostante il vento della crisi soffiasse forte anche su Torino, arriva la svolta: Marchionne intravede nella fusione della Fiat con la Chrysler la soluzione per salvarsi. Il matrimonio con la casa americana funziona e con la nuova Fiat Chrysler Automobiles nasce un colosso che arriva a produrre 4,5 milioni di auto all’anno. Gli anni successivi sono segnati dalla preparazione del manager al passaggio di consegne, nel 2017 annuncia che dall’aprile 2019 rimarrà solo presidente in Ferrari, ma anche dagli scontri con i sindacati. L’incontro con papa Francesco in piazzetta Reale a Torino nel 2015 è incorniciato dai fischi che si levarono tra i presenti quando sui maxischermi apparve il saluto tra l’amministratore e il pontefice. Non è stato semplice il lavoro del “manager in pullover”, come Marchionne era stato ribattezzato per il suo stile casual anche negli appuntamenti istituzionali. Chi l’ha conosciuto racconta di come non si fosse mai risparmiato né come amministratore, né come uomo. Poca vita mondana, riservatissimo su tutto ciò che riguardava la sua vita privata, come businessman ha dato il massimo di sé. Forse perché tra le tante responsabilità sentiva più forte di tutte proprio quella di agire per il bene della Fiat, sapendo bene cosa questa significasse per il Paese e per i suoi dipendenti. Sentiva il peso dell’eredità raccolta e del destino degli operai e, pur costretto dalle leggi dell’economia a fare a volte scelte non eticamente corrette, personalmente si era sempre preso cura delle condizioni dei dipendenti. È stato l’uomo che ha saputo unire l’abilità del manager che guarda al profitto, al buon senso del padre di famiglia che si prende cura della sua casa. In Fiat, dietro ogni macchina prodotta, c’è una storia e questa storia la scrivono tutti quelli che danno il proprio contributo lavorando con passione, indifferentemente che si indossi una tuta blu o un colletto bianco. Oggi il suo posto in Ferrari è stato preso da Louis Carey Camilleri, manager ex Philip Morris, l’industria del tabacco. Uno scherzo del destino, per lui che era un accanito fumatore, e una sfida per Camilleri, che dopo le sigarette dovrà ora imparare a prendersi cura delle persone.
Pubblicato su “Sulcis Iglesiente Oggi”, numero 29 del 5 agosto 2018