Il viaggio di Padre Venturino, domenicano

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Per i 410 anni della fondazione della chiesa di San Domenico, una tre giorni organizzata dal Gruppo AGESCI Iglesias 3

di Laura Aru Pintus e Fabio Manuel Serra

Il galeone ondeggiava placido in porto come cullato dall’acqua nera della notte. La nave tondeggiante è pesante sull’acqua, ben oltre la linea di galleggiamento, segno che tutto il carico è già ben riposto nella stiva. Venturino, per tutta la settimana, aveva osservato per ore le navi in porto per poter scegliere quella più idonea al suo progetto. Aveva attirato la sua attenzione quella  galea con un robusto albero maestro e issava vele quadre e auriche. Altre vele erano ben distese sulla banchina del porto, dove alla luce di  fiaccole, alcuni uomini vi passavano sopra, con grossi pennelli, una sostanza semitrasparente e puzzolente che pareva colla. Era sicuro che quel veliero avrebbe proprio fatto al caso suo. Ormai le notti insonni erano tante, e i pochi momenti di  dormiveglia venivano frequentati da urla e lamenti strazianti e pire ardenti su cui bruciavano giovani e vecchi, uomini e donne. La grande fede che da bambino lo aveva illuminato e sostenuto lo aveva portato lontano dalla sua famiglia, per poter studiare e seguire le regole dell’ordine dei domenicani che aveva fatto proprie. Quella stessa fede che ora lo affiancava ad altri, definiti saggi e dotti come lui, e che come lui sedevano sugli scranni dell’inquisizione. Le grida e le sofferenze dei torturati salivano violente dalle prigioni: nessuno li avrebbe salvati dalla mano dei giustizieri della religione. Gli eretici impenitenti sarebbero poi stati affidati “al braccio secolare”, cioè alla giustizia civile, che avrebbe provveduto a condannare a morte gli imputati. A nulla servivano le confessioni, vere o false che fossero. Gli eretici non si sarebbero salvati dal fuoco purificatore. Venturino non sopportava più di essere parte di quel progetto che permetteva il pentimento una sola volta. Un eretico che sceglieva di abiurare subiva, a volte, una sentenza minore: poteva essere condannato a una penitenza canonica o, se sospettato di grave eresia, veniva imprigionato a vita. Venturino voleva distaccarsi da quella vita fatta di ingiustizie e violenze elargite da alcuni uomini, a detta loro in nome di Dio, e riappropriarsi della sua fede, dei suoi studi e delle sue estasi nel consacrare l’ostia sollevandola tra le mani per innalzarla al cielo. Prende atto che in Spagna, dopo i decreti reali di Ferdinando II, l’inquisizione spagnola è in mano ai Gesuiti, ma non vuole restare in terra iberica e, quasi sentendo in sé una vocazione nuova, vuole raggiungere la Sardegna, dove è in fase di costruzione un convento minore che ricerca proprio consacrati dell’ordine dei domenicani. Ancora non si è presentato nessuno, e Venturino, con se stesso, ha assunto l’impegno di essere il primo e forse l’unico abitante del nuovo sito. Aveva chiesto un permesso breve per allontanarsi dal regno di Spagna e poter tornare in Italia, ma non gli era stato concesso. In Spagna i domenicani erano ancora un ordine potente anche per le loro strategiche alleanze e non erano disposti a rinunciare a Venturino, saggio, istruito e dotto domenicano, e pertanto gli negarono la possibilità di lasciare la Spagna. A Venturino rimaneva una sola possibilità. Scappare. Aveva studiato e preparato un piano di fuga semplice e difficile allo stesso tempo. Si sarebbe imbarcato di notte e nascostamente sul galeone che, a giorni, sarebbe salpato per Cáller. Dopo alcuni giorni di navigazione si sarebbe presentato al capitano dell’imbarcazione, che lo avrebbe accolto e considerato un portafortuna per la traversata. Non capitava spesso di avere a bordo un alto prelato domenicano. Per prima cosa doveva riuscire a cambiarsi d’abito, anche se la cosa gli pareva infausta. Avrebbe dovuto rinunciare alla sua tonaca bianca con sovrapposto lo scapolare col cappuccio, sempre bianco, e su tutto la cappa nera, col nero cappuccio nel quale si infilava l’altro candido, uno dentro l’altro. Venturino ricordava bene la prima volta che aveva indossato quelle vesti e come se ne era sentito accolto, protetto, quasi lo avessero reso invincibile. E quanto era stato ammirato nel convento di Santa Cruz la Real di Segovia, quando lentamente, peccando di vanità, aveva attraversato la navata della cattedrale. Aveva superbamente spinto appena un po’ indietro il cappuccio per mostrare la sua carnagione nivea ancora giovane e fresca, gli occhi cerulei curiosi e buoni, e quella barba che cominciava ad imbiancarsi e che curava ossessivamente ogni giorno. Non mancava mai di lisciarla con pettini preziosi d’argento e tartaruga e la rendeva morbida e setosa con unguenti profumati e segreti che alcune monache preparavano solo per lui. Venturino, in un sacco ben nascosto tra le rocce di una cala deserta, aveva messo dei calzonacci ed una maglia che un vecchio marinaio gli aveva venduto per pochi soldi. Arrivato nella baia si guardò intorno. Era solo con qualche gabbiano che gridava sgarbato. Si spogliò. Nudo entrò in mare dove si lavò con cura. L’acqua era fredda ed il sale gli pizzicava la pelle delicata, ma pensando a quanto tempo sarebbe potuto passare prima di potersi rilavare, indugiò a lungo nel bagno provando alla fine piacere per quella frescura salmastra. Nel togliere gli indumenti dal sacco prese subito atto, volgendo subitaneamente il viso dall’altra parte, che puzzavano molto, ed essendo rigidi gli avrebbero graffiato la pelle. I calzoni gli stavano corti e doveva tenerli su con una corda sfilacciata, e la maglia in più punti era malamente rattoppata. A Venturino venne da ridere pensando a cosa avrebbero detto di lui i suoi confratelli vedendo il potente inquisitore difensore della fede, stimato e riverito, vestito di cenci. Ripiegò con meticolosità ogni pezzo del suo abito da domenicano e con attenzione ripose tutto nel sacco puzzolente.  La notte era quella giusta. Il veliero sarebbe salpato dopo il sorgere del sole. Venturino si guardò intorno. Nel buio assoluto distingueva lontanissima la fiaccola del faro. Aveva contato precedentemente i passi da fare per raggiungere la gomena che assicurava la barca al porto. Il sacco ben legato in vita gli lasciava libere le mani, e così anche i piedi scalzi  che si attorcigliarono alla corda. Si attaccò saldamente alla cima e con movimenti precisi del corpo avanzò nel buio. Lontano, lassù in cielo, una falce di luna pareva irridere a quell’impresa. Issatosi a bordo rimase immobile, poi piede dopo piede cominciò a muoversi. Sentiva gli scricchiolii delle assi del ponte e li percepiva ingigantiti dalla paura di poter essere scoperto troppo presto rispetto ai suoi piani. Nel silenzio Venturino, che aveva preso precedentemente visione della pianta dell’imbarcazione, andò a sistemarsi nella stiva tra botti marcescenti e stie di pollame denutrito e chiassoso. Capì di essere prossimi alla partenza quando una voce tonante impartì ordini secchi in lingua catalana. Il caldo ed il freddo si alternavano in quel fetido nascondiglio, ma più di ogni altra cosa Venturino pativa la sete che gli rendeva arida la gola e gli faceva sognare fontane d’acqua gelata. Capì dalla velocità che prendeva la nave che tutte le vele erano state issate e, dall’alternarsi del giorno e della notte, che erano giunti al secondo giorno di navigazione; così ritenne arrivato il momento di presentarsi al capitano. Riindossò i suoi abiti da domenicano e si avviò verso il cassero, dove era ubicata la plancia di comando. Sapeva che il capitano era un uomo grosso di corporatura e di pelo rosso, veneziano di natali, e di nome Antonio Maria Foscaretto. Solcava tutto il Mediterraneo cedendo, a chi offriva più denaro, i suoi servizi. Nel sole del mezzogiorno la  tonaca di Venturino appariva ancora più candida, e la cappa nera, svolazzante nella brezza marina, lo faceva simile ad un rondone. Si presentò al capitano in un italiano perfetto, elencando le sue alte cariche e chiedendogli di poter proseguire la navigazione e poter sbarcare in Sardegna, dove la galea era diretta. Il capitano lo accolse con tutti gli onori alla sua tavola e, per tutta la durata della traversata, Venturino trovò in lui un compagno con cui osservare le costellazioni ‒ sua grande passione ‒, fare il punto sulla rotta da seguire, imparare quali vele, a seconda del vento, dover issare. Nei giorni di burrasca Venturino pregava ad alta voce, dando così coraggio agli uomini dell’equipaggio terrorizzati dai flutti che si abbattevano sul ponte, spazzando via qualche marinaio che non si era saldamente legato alle panche o agli alberi maestri. Cáller vista dal mare sembrava un dipinto veneziano, e la luce dorata del tramonto la rendeva splendente come una bella donna con i gioielli e gli abiti della festa. Presto sarebbe scesa la notte, ma Venturino non si recò dai suoi confratelli nel quartiere di Villanova dove era ubicato il convento dei domenicani. Temeva domande sul suo viaggiare solo senza il servo e domande sulla sua permanenza in Sardegna. Inoltre l’Inquisizione era ancora molto potente a Cáller e i domenicani, pensando ad una sua missione segreta, avrebbero cominciato a sospettare in città di quelle persone in odore di eresia o di quei religiosi spregiudicati nel loro ministero e nel loro predicare. Venturino non voleva suscitare aspettative e curiosità, ed essere così coinvolto in discorsi da cui voleva tenersi lontano il più possibile. Era venuto a sapere che ad Iglesias, grazie ad un importante lascito del canonico Melchiorre Fenza Cannavera, il vescovo Nicolò Cannavera aveva patrocinato la costruzione di un nuovo convento proprio di fianco alla chiesa di San Domenico. Venturino si rimise i calzonacci e la maglia lurida e si incamminò verso la città d’antica tradizione mineraria. Fu una settimana difficile, durante la quale procedeva solo la notte, riposando nascosto tra i cespugli di giorno. Finalmente giunse nei pressi delle mura, davanti alle quali si trovava una palizzata di legno, con funzione difensiva, rafforzata da un fossato che doveva tenere lontane le truppe nemiche e le macchine da guerra. Le mura avevano la peculiarità  di essere  costruite  con pietre miste disposte in corsi orizzontali, creando una disomogeneità che garantiva grande resistenza agli attacchi. Trovò la vista di quella fortificazione interessante e sicura, e decise di riindossare la tonaca domenicana ed entrare dalla Porta Maestra, presso la quale gendarmi armati controllavano gli ingressi nell’urbe. Venturino abbassò il cappuccio quasi sul collo, affinché fosse ben visibile la rotonda tonsura e nessuno pensasse che il suo fosse un travestimento. Venne bloccato per pochi momenti. Osservato. Un gendarme gli girò intorno chiedendogli da dove venisse e, candidamente, Venturino rispose: «Cáller». Era comunque la verità. Gli fu consentito l’accesso. Nessuno badò alle sue vesti pulite ed ai suoi calzari non impolverati. Attraversò vie strette dove pochi venditori improvvisati esponevano i raccolti dei loro orti. Ed eccolo Venturino, davanti alla chiesa del  fondatore del suo ordine. L.A.P.


Il potenziamento sardo dell’ordine de los Dominicos, ossia dei Domenicani, si deve alla precisa volontà del re Filippo II d’Asburgo (1527 – 1598), sovrano dei regni iberici e, di conseguenza, anche della Sardegna. Questi, infatti, non accettò che la presenza dei frati predicatori fosse limitata alla sola città di Cagliari, e dunque ordinò che venissero costruiti nuovi conventi in diverse aree del Regnum Sardiniae. Il motivo che spinse Filippo II a incrementare la presenza dei domenicani è da ricercare nella sua profonda spiritualità, non distante in vero dalla politica della Corona di Spagna. Infatti, come ha evidenziato chiaramente il noto storico John Elliott nel suo lavoro “España y su mundo” (Barcelona, 2018, p. 246), il frammentato e complesso mondo governato dal sovrano era tenuto insieme esclusivamente da tre soli elementi chiave: la figura del re (consacrato da Dio), la Chiesa Cattolica e l’Inquisizione. Non è certamente per potenziare quest’ultima che il re decise di favorire l’espansione domenicana in Sardegna. Di fatto, onde evitare di cadere in tanto facili quanto inesatti stereotipi, non è storicamente vero che l’Inquisizione sarda dei secoli XVI e XVII si dedicava alla caccia di fantomatiche streghe, né che fosse uno strumento costantemente opprimente della vita dei sardi di quei secoli. A riprova di ciò, infatti, sarebbe sufficiente citare la storia del servizio pastorale dell’Arcivescovo di Cagliari e Vescovo di Iglesias Antonio Parragués de Castillejo († c.ca 1573) che, sulla scorta delle migliori intenzioni derivanti dal Concilio di Trento, si dedicò interamente all’opera di evangelizzatore, talvolta venendo osteggiato per questo suo zelo particolare. Nonostante le opposizioni che ricevette, l’Arcivescovo non ricorse mai ai poteri inquisitori, ma reagì al massimo con strumenti decisamente meno cruenti e spiritualmente di certo più efficaci.
Dunque, la scelta del re ricadde sui Domenicani sicuramente per via dei pilastri che costituiscono la loro missione di vita: la preghiera, la predicazione, la vita comunitaria e lo studio. Soprattutto l’ultimo di questi punti era convincente agli occhi di Filippo II, conosciuto anche come el rey papelero per via della quantità di lettere e di documenti che produceva personalmente. L’istruzione era più forte di qualsiasi coercizione, specialmente ‒ ma non esclusivamente ‒, in riferimento alle classi più agiate della società. Ed è a proprio questo obiettivo che egli mirava: far sì che la Sardegna beneficiasse dell’istruzione e della sapienza dei Domenicani.
Ma torniamo a Venturino. Lo avevamo lasciato dinanzi alla Chiesa di San Domenico, costruita tra il 1610 e il 1611 nella città regia di Iglesias, probabilmente sulle rovine della medievale Chiesa della Santissima Trinità. L’edificio che apparve agli occhi del nostro immaginario amico non doveva essere molto dissimile dall’attuale. Realizzato secondo un gusto goticheggiante, nulla ha a che vedere col gotico medievale, ma è piuttosto una sua riproposizione per gusto personale del promotore della costruzione dell’edificio. Lo stemma araldico del Vescovo di Alghero Nicolò Cannavera (iglesiente di nascita) è riprodotto tanto sulla lapide funeraria, che una volta doveva essere collocata sul pavimento della chiesa, quanto sull’acquasantiera della chiesa, che reca per l’appunto la data del 1611. L’apposizione di tale stemma era il segnale della volontà del Vescovo di essere ricordato nella sua città, nonché nella chiesa medesima fatta costruire sotto il suo patrocinio, grazie anche a un lascito del canonico Melchiorre Fenza Cannavera.
Nonostante ciò, il presbiterio che si presentò al nostro Venturino doveva essere decisamente più ampio di quello attuale: l’abside della chiesa, infatti, è stata eliminata durante il XIX secolo, e la stessa sorte è poi toccata al ponte che collegava l’edificio sacro al convento domenicano sito proprio sul retro della medesima chiesa, oltre il fiume oggi tombato sotto Via Eleonora (in sardo: s’Arruga de s’Arriu). Inoltre, era sicuramente presente una cantoria lignea proprio al di sopra dell’ingresso dell’edifico, e non è da escludere l’esistenza di un organo ivi collocato.
La Chiesa di San Domenico di Iglesias, associata al convento dei Domenicani, fu anche luogo di preghiera della Confraternita del Rosario che, a fine Seicento, trovò dimora nell’allora oratorio, oggi sede del Gruppo Scout Iglesias 3. Questo edificio divenne fortemente simbolico per Iglesias, e non di certo a causa di inesistenti processi inquisitori! Infatti, l’ordine dei Predicatori si dedicò con grandissima energia non a tali pratiche, ma piuttosto all’istruzione e all’educazione dei più piccoli: il loro operato, in pieno spirito di carità, fu offerto non ai figli delle più abbienti personalità cittadine, ma piuttosto ai bambini poveri, bisognosi, e appartenenti alle classi sociali medio-basse.
A distanza di 400 anni, ancora oggi, nella Chiesa di San Domenico vengono portate avanti diverse attività educative: non più dai Domenicani, ormai assenti in città da tanto tempo, ma piuttosto dagli Scout che, di concerto con la Parrocchia, dedicano il loro tempo all’educazione dei bambini seguendo la strada tracciata più di cento anni fa da Lord Baden-Powell of Gilwell. F.M.S.