Cinquant’anni fa lo scudetto del Cagliari

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Sport. Da Arrica all’allenatore Scopigno, Gigi Riva e i compagni, circostanze e retroscena dell’indimenticabile scudetto del Cagliari calcio nel 1970

di Nanni Boi

Formazione Cagliari 1969-1970Fu un insieme di circostanze irripetibili e curiose, miste ad un’innegabile competenza e al corso della storia mutato per l’occasione, a far sì che lo scudetto potesse sbarcare in Sardegna. Intanto la proprietà: anche se non compare sugli almanacchi, quel Cagliari era di Angelo Moratti. Il petroliere dell’Inter euromondiale aveva accettato volentieri di prendersi l’incombenza delle azioni rossoblù nel 1967, scongiurando la cessione di Riva, dopo che la Regione Sardegna aveva concesso enormi finanziamenti per la nascita della Saras. Moratti senior aveva affidato la gestione amministrativa del Cagliari calcio all’ingegner Paolo Marras e quella tecnica ad Andrea Arrica, che aveva rilevato il Cagliari nel 1960 insieme a Enrico Rocca. Arrica si circondò di abili talent scout, primo fra tutti un carabiniere di stanza a Vicenza, il maresciallo Vitali, che fu il primo a segnalargli Riva e tanti altri. Ma quegli acquisti si poterono concretizzare grazie ai rapporti amichevoli con tutti i colleghi presidenti. Carlo Visconti della Reggiana gli diede su un piatto d’argento Martiradonna nel ‘62 e Greatti nel ‘63, e Luciano Caccia del Legnano sempre nel ‘63 gli diede Riva per 37 milioni. Sembrano bazzecole, ma Silvestri raccontò che all’annuncio di quella spesa il presidente Rocca gli lanciò un tampone d’inchiostro perché la considerava esagerata (Arrica che conosceva il carattere energico di Rocca con cui era anche socio in diverse attività di rappresentanza, aveva mandato in avanscoperta il tecnico aspettando prudentemente fuori dalla stanza).
Poi anche il fato ci si mise di mezzo. Con un tergicristallo rotto che costrinse Arrica e l’allenatore Silvestri a fermarsi a Pistoia per un temporale, consentendo così al tecnico di innamorarsi proprio di Greatti che ai tempi giocava ancora attaccante nella Reggiana (non a caso nell’anno della prima storica promozione dalla B alla A, Ricciotti sarebbe stato il capocannoniere della squadra rossoblù con 12 reti). Decisivo fu poi il rifiuto di Cera di fare un provino per l’Inter alla fine della stagione ‘63-64 quando giocava a Verona (“Mi avevano visto per tutto il campionato con i loro osservatori – protestò il capitano dello scudetto – quando vennero a dirmi che ero stato convocato insieme a Ciccolo per un’amichevole mi opposi e il Cagliari fu bravo a prendermi”). Arrica aveva occhi e orecchie dappertutto.
Nel ‘68 passò alla storia l’acquisto di Albertosi e Brugnera dalla Fiorentina in cambio di Rizzo, grazie alla firma su un tovagliolo apposta dal presidente toscano Baglini in un locale in cui non mancavano bicchieri di vino e avvenenti ragazze. In realtà il povero Baglini doveva liberarsi di entrambi perché Brugnera aveva fatto a cazzotti con l’allenatore Andrea Bassi dopo avergli fatto un plateale gestaccio davanti a 40mila spettatori a seguito di un gol realizzato alla Juve, mentre qualche giudizio frettoloso dei più stretti collaboratori gli aveva fatto capire che Superchi, allora dodicesimo, fosse meglio del nazionale Ricky. Lo scudetto del ‘69 gli diede ragione, così come quello del ‘70 diede ragione al suo collega. Non diversamente l’anno dopo si realizzò lo scambio del secolo tra Boninsegna e gli interisti Domenghini, Gori e Poli (Bonimba era stato preso quasi gratis sempre dall’Inter tre anni prima). Anche in quel caso non fu solo… un caso. Domenghini doveva cambiare aria dopo aver risposto piccato (eufemismo) a Lady Fraizzoli che in un’intervista aveva detto di “apprezzare più un quarto d’ora di Corso che due ore di Domingo”. Serie_A_1969-70_-_Gigi_Riva_scoring_for_Cagliari_v_Juventus_in_Turin_(3)
C’era poi la famosa promessa di Arrica sull’opzione per la cessione di Riva, grazie alla quale, oltre all’Inter, lo stesso Arrica teneva in scacco un po’ tutti: Boniperti anni prima gli aveva dato a prezzo di saldo il riscatto di Nenè pagato al Santos 120 milioni, e il Milan di Carraro gli aveva concesso il roccioso Zignoli in prestito gratuito per un paio d’anni. Scopigno aveva dato l’avallo all’acquisto di Tomasini dal Brescia di Vicini dopo aver avuto buone parole sul libero da Tommaso Maestrelli che lo aveva avuto l’anno precedente alla Reggina. (“la volta che ti ho visto non toccasti palla – gli disse – e pensai: o è un bidone o è un campione”).
Sempre Scopigno due anni prima da Vicenza si era portato Tiberi e Reginato, ma mentre il primo sarebbe stato una meteora, il portiere che aggiustava televisori e montava antenne avrebbe stabilito alcuni record di imbattibilità che ancora oggi resistono. Già Scopigno. Il filosofo lo chiamavano. Non era un grande stratega e come preparatore atletico si limitava al minimo, e anche meno, sindacale (quando c’era la neve in trasferta più di una volta nei ritiri fece fare riscaldamento ai suoi nei corridoi degli hotel!) Ma era sicuramente una persona intelligente dotato di uno stile icastico (a Barcellona quando gli diedero notizia che Riva si era rotto la gamba col Portogallo, per non farne una tragedia se ne uscì con una delle sue: “Meglio a lui che a me”). Capì che quella squadra andava da sola e seppe gestirla nel migliore dei modi senza stravolgerla, eliminando i ritiri e gli allenamenti mattutini non graditi a Riva che la notte faticava a prender sonno e rimaneva a letto sino a tardi per recuperare. Manlio aveva imparato il mestiere nel Vicenza di Lerici e proprio lì, oltre che nel cinque anni di Cagliari (intervallati dalla… pipì nel vaso dei fiori all’ambasciata italiana a Cicago che gli costò un anno di sospensione), diede il meglio di sé proseguendo nel solco del maestro berico. Quando invece dovette costruire in proprio fallì miseramente.

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