Attuare il bene comune e mettere la persona al centro del sistema economico per arrivare ad un’economia etica e sostenibile
di Franco Manca
Incaricato CES per i problemi sociali e del lavoro
Nei giorni scorsi è stato pubblicato un documento dei vescovi italiani per la festa del 1° maggio dal titolo “Il lavoro in un’economia sostenibile”. Il documento si pone nell’ottica di cosa fare e come fare dopo la crisi sanitaria determinata dall’epidemia del Covid 19. Grande è la consapevolezza che nulla sarà come prima e che dalle rovine dell’epidemia occorre mettere in piedi un nuovo modello di sviluppo. La crisi epidemica ci ha messo di fronte a fenomeni quasi sconosciuti nell’epoca previrale evidenziando una società civile che prima appariva nascosta, titubante, quasi si vergognasse della propria coscienza civile, della propria visione etica, della convinta solidarietà, della ricerca del bene comune. Sono così emersi migliaia di nuovi eroi, il personale sanitario, le forze dell’ordine, i lavoratori dei supermercati, gli operatori ecologici, quelli dei trasporti, e tantissimi altri, persone che in precedenza venivano al più ignorate dalla pubblica opinione. Anche sacerdoti, religiosi e religiose: un centinaio di costoro ha perso la vita in quest’opera.
Eroi della quotidianità, persone che prima dell’epidemia erano trascurate dall’informazione, ma che adesso sono venute alla ribalta nei momenti importanti della nostra vita civile e che non devono sparire dopo l’emergenza sanitaria, perché è sui valori anche di queste persone, che sono tantissime, che, come dice il documento dei vescovi, è necessario rifondare la nostra società.
La crisi sociale ed economica era già presente prima dello scoppio dell’epidemia, provocata dalla finanza internazionale sempre più pervasiva dalla centralità del mercato e del business, dal consumismo esasperato, dal profitto come unico traguardo, da una ingiusta distribuzione della ricchezza. Distribuzione sempre più iniqua dato che i patrimoni si concentrano sempre più. Nel mondo 26 individui possiedono la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera del pianeta (Fonte Oxfam). In Italia il 20% più ricco possiede il 72% dell’intera ricchezza nazionale (Fonte Oxfam).
Può considerarsi giusta una società che presenta questo tipo di squilibri? Oggi questa società è costruita prevalentemente su un modello culturale basato sull’ideologia del mercato che concepisce l’uomo in modo individualista, chiuso alla trascendenza e centrato su se stesso. Una società incapace di pensare e tanto meno di attuare il bene comune, scopo della società giusta.
Sono necessarie inversioni di rotta e correzione degli squilibri. Occorre perciò lavorare ad un nuovo processo di sviluppo, afferma il documento dei vescovi, che metta al centro la persona nell’economia, la dignità del lavoratore e l’ambiente naturale senza violentarlo e nell’ottica di uno sviluppo sostenibile. Questa è l’unica via per salvarci. È indispensabile una fase di transizione verso un nuovo modello di sviluppo capace di coniugare la creazione di valore economico con la dignità del lavoro e la soluzione dei problemi ambientali. Il punto di partenza dunque non può che essere un nuovo modello di sviluppo che faccia tesoro delle vere umanità che questa crisi è stata in grado di esprimere con forza e che costituiscono la vera ricchezza del nostro Paese e a cui affidare la costruzione di un processo di consenso e di partecipazione per arrivare a costruire anche in economia un percorso che porti al bene comune, che rappresenta la vera e propria guida etica della Chiesa in ambito socio economico, come Giovanni Paolo II ha, in più occasioni rimarcato.
Questa crisi, lo sappiamo, viene da lontano e ha precise responsabilità a partire dal sistema finanziario e bancario. Il fatto è che chi ha queste pesanti responsabilità continua a mantenere il proprio status, scaricando sulle popolazioni i loro errori.
Se è vero, come afferma il documento, che nulla sarà come prima in tutti i campi, è indispensabile uno sforzo partecipativo, solidaristico, condiviso anche attraverso un fitto e serio controllo sociale della classe dirigente e burocratica nelle iniziative e nelle attività sociali ed economiche messe in campo. Da questo punto di vista particolarmente sensibile è il tema delle compatibilità, con il mercato, con l’ambiente, con il sistema finanziario, con l’occupazione. Sull’altare delle compatibilità sono troppi i sacrifici fatti dalla gente comune anche in termini di crescente povertà.
Per quanto l’economia possa considerarsi come uno dei luoghi etici, politici, e culturali strategici per ascoltare e interpellare la società contemporanea, forte è il disagio che si avverte di fronte ai modelli e alle strategie di modernizzazione anche per quanto diffondono in termini di cultura, valori, e stereotipi.
Questo disagio si avverte anche nell’analisi dei costi umani pagati ai processi di trasformazione industriale e nella constatazione delle insufficienze dei sistemi. Questi, nonostante i successi ottenuti, si sono rivelati incapaci di rispondere positivamente ai problemi di larghi strati, emarginati dal nuovo corso dello sviluppo, e lungo questo percorso non si riscontrano capacità di riformulare prospettive adeguate per governare nuovi contesti.
Di certo possiamo dire che questi processi sono suscettibili di miglioramento e che quindi c’è molto da lavorare sia dal punto di vista culturale sia dal punto di vista sperimentale. Tutto ciò implica uno sforzo profondo di revisione dell’esistente, sia nella teoria che nella pratica economica, trovando il proprio fondamento in quello che oggi non sembra improprio designare come il nuovo bisogno etico delle nostre società. Uno sforzo che deve stimolare ad osare nuovi esperimenti di democrazia economica magari anche attraverso un nuovo umanesimo.