Nuovo governo, stesso Parlamento: nella crisi il vuoto di una classe dirigente

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di Giampaolo Atzei

Giusto una settimana fa, mentre andava in stampa il precedente numero di Sulcis Iglesiente Oggi, si chiudeva definitivamente l’esperienza del secondo governo Conte. Il resto è storia nota, il presidente della Repubblica ha incaricato Mario Draghi che sta ora definendo programmi e squadra del nuovo esecutivo, chiamato a condurre l’Italia fuori dalla crisi della pandemia ed a gestire la vaccinazione di massa contro il Covid. Già scorrono fiumi di inchiostro e diluvi di parole, in un clima di generale attesa e fiducia dopo lo sconforto iniziale per una crisi che appariva tanto incomprensibile e disapprovata.
Tuttavia, all’osservare il plauso generale che accompagna la nascita del nuovo governo, rimane il sospetto che le ragioni della crisi non siano da circoscrivere nelle bizze politiche di Matteo Renzi, come si è voluto raccontare nei primi tempi, ma che qualcosa di ben più profondo avesse minato le basi del precedente governo e che Renzi si sia alla fine sporcato le mani per conto terzi. La stessa reazione di Mattarella induce a quest’osservazione. Andato a vuoto il mandato esplorativo assegnato al presidente della Camera Roberto Fico, ha subito giocato la carta Draghi. Volendo immaginare una metafora sportiva, da consumato mister, Mattarella non ha più indugiato quando, dalla sua panchina, ha visto una squadra in campo senza nerbo, poco gioco e ancor meno risultati, come spesso succede quando al difetto della tecnica si cerca di supplire con fiato e forza però mancano pure questi. In quel caso, dopo la fiducia ai giovani, magari inesperti ma meritevoli di una possibilità, prima che il peggio si scateni, meglio togliere chi non ce la fa più e mettere dentro qualcuno con piedi buoni ed esperienza, pronto a dare una mano per il bene della squadra. E così facendo, per l’interesse superiore, tutti seguono il compagno saggio pronto a scendere in campo, in attesa che passi la crisi e torni il fiato.
Palla al centro, ora si ricomincia. Con Mario Draghi che – a meno di scossoni più forti di una rivoluzione – condurrà ad un governo di unità nazionale. Poi si vedrà, perché comunque la sua base politica vorrà cercata nello stesso Parlamento disomogeneo che ha prodotto due governi di opposte maggioranze in nemmeno tre anni e che, realisticamente, difficilmente riscoprirà d’incanto coesione e provvidenza. Soluzioni diverse non ne sono state offerte, niente voto, niente alternative. Il capo dello Stato ha perso la pazienza e ha tracciato la strada, rimarcando il ruolo sempre più incisivo e meno notarile che la massima carica della Repubblica oggi ricopre in un panorama politico segnato da alcuni evidenti punti di degrado. Una democrazia che viene quasi commissariata dalla sua figura di garanzia è evidentemente una democrazia malata, figlia di una società che non sa più esprimere una classe dirigente degna di tal nome, come ha osservato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, riflettendo sull’implosione delle élites nazionali e l’ignoranza di chi oggi ci amministra: dopo il boom dell’antipolitica, della retorica contro la casta, il movimentismo e il populismo sono arrivati alle Istituzioni finendo con l’assumere i peggiori panni di chi volevano demolire, colpendo al cuore la politica stessa, sino al punto di non essere in grado di generare un governo se non per una volontà superiore, che ha imposto alle parti di condividere un progetto comune. Una dura lezione per la democrazia italiana, una chiamata all’impegno per la società civile e per i partiti: finirà la pandemia, investiremo i fondi europei per la rinascita economica, molto più tempo e fatica occorrerà per ricostruire le basi morali del Paese.