Problemi aperti: clericalismo e ruolo delle donne

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Dialogo con mons. Stefano Scanabissi, rettore del Seminario Regionale di Bologna, sul ruolo della donna nel processo formativo dei sacerdoti

Mario Girau
Nuovo Cammino – Ales Terralba

Il cardinale Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i vescovi, nel numero di maggio di “Donne Chiesa Mondo”, mensile dell’Osservatore Romano in uscita on line sabato 25 aprile, si sofferma sui diversi aspetti del ruolo della donna nella formazione sacerdotale, nelle comunità parrocchiali e più in generale nella vita della Chiesa. Il porporato, che più volte si è detto favorevole alla presenza femminile nella formazione dei sacerdoti e nell’accompagnamento spirituale, in un’intervista a Vatican News, ha detto che le donne possono partecipare al processo formativo dei preti in molti modi: nell’insegnamento teologico, filosofico, nell’insegnamento della spiritualità. “Possono fare parte della squadra dei formatori, in particolare nel discernimento delle vocazioni. In questo campo abbiamo bisogno del parere delle donne, della loro intuizione, della loro capacità di cogliere il lato umano dei candidati, il loro grado di maturità affettiva o psicologica”. Su questo ruolo femminile, sicuramente rivoluzionario per la Chiesa, abbiamo chiesto il parere di monsignor Stefano Scanabissi, fino a due settimane fa coordinatore nazionale dei rettori dei pontifici seminari maggiori regionali.013 preti“La riflessione teologica è giunta in questi anni a chiarire sempre meglio la dimensione femminile e materna non solo della Chiesa ma anche dell’immagine di Dio impressa nell’uomo, creato come maschio e femmina, e di conseguenza della concezione di Dio stesso. Inoltre, la constatazione del fatto che la stragrande maggioranza dei fedeli e di chi è attivo nelle parrocchie appartiene al genere femminile, dovrebbe ormai, purtroppo non sempre, fugare ogni atteggiamento misogino dal sentire ecclesiastico, per crescere nella considerazione di quanto sia preziosa questa tipica presenza nella comunità cristiana. Come afferma il Prefetto Card Ouellet, la donna non è un pericolo per il prete, ma è un pericolo per la Chiesa – dice mons. Scanabissi – la presenza di un prete che tiene lontane le donne, per esempio, per difendere la propria virtù, come rappresentante di un maschilismo che prevede la svalutazione delle qualità femminili, o la semplice sottomissione delle donne, pensate come esecutrici, forse collaboratrici, ma non corresponsabili. In questo caso si riscontrerebbero gravi mancanze nell’impianto psico-spirituale, nell’ambito della formazione seminaristica. Se un seminarista non apprezza il matrimonio come dono di Dio non è adatto a fare il prete e procurerà gravi danni al popolo di Dio. Le virtù sacerdotali per un pastore che dà la vita per tutto il gregge, si fondano su un impianto teologico, spirituale, di umana consistenza, adeguati alla carità pastorale che estende fraternità e paternità su tutti, senza escludere nessuno. Occorre poi che i futuri presbiteri acquisiscano anche, grazie alla frequentazione delle famiglie, lungo il loro cammino formativo, imparando dalle donne specificatamente l’arte della maternità, impiegando tutta la loro carica affettiva per essere considerati accessibili da tutte le categorie delle persone, con cuore paterno e materno, per non rischiare di essere impiegati a ore, anaffettivi. Anch’io penso che nell’ambito del discernimento e nella specifica formazione al presbiterato diocesano, durante il tirocinio pastorale dei seminaristi sia essenziale il riferimento a collaboratrici responsabili e consultabili alla fine dell’esperienza di ciascuno. La sensibilità femminile possiede un’acutezza di analisi immediata dell’umanità del seminarista, ben prima e più articolata di quella dei formatori sacerdoti. A questa conclusione sono giunti anche San Giovanni Paolo II (Pastores dabo vobis) e papa Francesco (Amoris Laetitia 202-203)”.

Ma questo inserimento femminile nell’equipe dei seminari è oggi fattibile in Italia?

Credo che i tempi non siano ancora maturi per questo opportuno inserimento nell’impresa formativa in atto nei seminari. Oltretutto forse, prima ancora, occorrerebbe già curare la formazione previa dei formatori (rettori, direttori spirituali, animatori, vicerettori) individuati e prescelti per tempo, e non ancora semplicemente sottratti alla vita pastorale, o l’inserimento di uno psicologo come supervisore del lavoro dell’equipe stessa, ma collocabile un po’ al di fuori di essa, senza che sia lui a decidere della vocabilità dei candidati.

I formatori e i formandi potrebbero considerare questa presenza un’invasione di campo. Chi più dei sacerdoti ha l’occhio clinico per formare i futuri preti?

Infatti, la competenza dei formatori sacerdoti è sicuramente quella della spiritualità del sacerdote diocesano, della formazione intellettuale e circa la pastorale dell’azione del sacerdote e della sua identità specifica, secondo i dettami del Concilio Vaticano II e per certi aspetti anche circa il delicatissimo e oggi urgentissimo ambito della formazione umana, che ha acquisito una sorta di primato sugli altri. Proprio in questo settore occorre essere molto più attenti. È proprio in questo settore della formazione, e non solo, che la presenza della sensibilità femminile rivelerà grandi risorse, me sempre in un coordinamento complementare di tutte le voci, nel lavoro di equipe. Cioè di più sguardi complementari su un unico candidato.

Quale requisiti dovrebbe avere una donna per entrare a fra parte del gruppo formatori?

Sono altresì convinto, proprio per la complessità odierna del discernimento, della formazione al presbiterato e della costituzione psico-spirituale di ciascun candidato, uno sguardo plenario degli educatori in equipe, allargabile a presenze femminili preparate, competenti teologicamente, spiritualmente e pastoralmente, secondo il principio della complementarietà educativa dello sguardo di chi poi è chiamato a dare una valutazione finale, il rettore, sull’idoneità dei candidati stessi. Con una collocazione ben pensata dell’operatrice esperta e disponibile, che vuol bene al seminario, capace di collaborare in empatia con i colleghi educatori, sempre a seconda delle situazioni concrete da vivere. O all’interno delle equipe o come aiuto esterno all’equipe stessa, ma stabilmente o periodicamente ad essa collegata o come responsabile di qualche settore del tirocinio pastorale, o altro ancora. Si tratterà quindi di non standardizzare quella presenza femminile nei confronti di qualunque seminario e di qualsiasi equipe, ma di articolare una presenza secondo le situazioni concrete. Si deve prevedere la partecipazione di operatrici così preparate anche ai corsi di formazione dei formatori a cui ogni equipe è annualmente impegnata, per una ricerca davvero collegiale.

L’aspetto affettivo sembra il tallone d’Achille della formazione sacerdotale. Soprattutto tra coloro che scelgono il seminario immediatamente dopo la maturità. Non sarebbe meglio innalzare l’età minima a 23-25 anni?

I percorsi formativi sono diversi secondo le latitudini italiane. A Bologna, nel nostro seminario regionale, il “Flaminio”, è difficile che uno arrivi alla ordinazione diaconale prima dei 30/34 anni. Il sostegno psicologico è uno strumento sempre più essenziale per educare i giovani alla profonda conoscenza e gestione oblativa di sé, con psicologi e psicologhe collegate con l’equipe e i rettori diocesani. Da noi il 70/% dei giovani compie un percorso di sostegno psicologico, raccordato intimamente con l’accompagnamento spirituale, per individuare insicurezze, aggressività latenti, rigidità, disistima o sovrastima di sé, attaccamenti invasivi, plagianti, automatismi di cui il soggetto non si accorge, ma che agiscono, narcisismo, instabilità emotiva, sensi di colpa, bisogno dipendere da un leader o di generare dipendenze satellitari in altri. Attivare una dimensione affettiva adeguata vuol dire che occorre avere una certa garanzia che il ministero sia vissuto, con il cuore e non solo con la testa, in senso di generosa oblatività, senza attivare circuiti affettivi di rifugio, manie clericali, spiritualismi che coprono inconsistenze profonde. Con un allenamento prolungato nel tempo di relazionalità empatica con tutte le persone, piccoli, adulti anziani, donne e ragazze comprese, per ravvisare nella relazione con esse quella complementarietà che sarà necessaria al ministero futuro, paterno e materno. Occorre anche osservare che diversi seminaristi hanno carenze affettive, provenienti da genitori separati, padri autoritari, madri invadenti. Che hanno un vissuto toccato da una sofferenza, che sembra il teatro favorevole al sorgere della vocazione. In una terra “rossa” il clericalismo e carrierismo è scoraggiato dalla situazione sociale di sempre, il senso di una promozione sociale diventando preti è un ricordo di 70 anni fa.

Perché il clericalismo è maggiormente presente più tra i giovani sacerdoti che tra gli anziani?

Quando questo accade pare che il clericalismo, in una società dove il ruolo del prete fosse ancora socialmente valorizzato, possa rassicurare chi è mancante di affetto, insicuro, alla ricerca di compensazioni, nel desiderio di potere da esercitare sugli altri per prevalere e trovare la propria autogratificazione, come se il ministero fosse strumentale alla propria realizzazione e non il bene delle anime, che spesso non sono aiutate a crescere nella coscienza ecclesiale, ma usate. Tale malattia coglie i giovani, che non hanno avuto grossi ostacoli nella vita, con carenze affettive, che non vogliono affrontare la fatica formativa di adeguare la propria umanità a un compito così alto e scelgono la via più facile della costituzione di una casta protettiva, che genera la separazione dalla vita della gente, dando per scontato che il desiderio sublimato di diventare prete per la propria autogratificazione, coincida con il diritto di diventarlo. Le generazioni di preti anziani hanno conosciuto più facilmente fatiche, la durezza della vita, nella semplicità di una vita famigliare forse più ordinaria.

Non le sembra che i giovani preti siano privilegiati rispetto ai loro coetanei. Appena ordinati hanno un “lavoro”, uno stipendio, si possono concedere anche qualche benessere. I loro coetanei dopo la laurea iniziano la lotta per il lavoro, per realizzare il loro progetto di vita, e non sempre, e non per colpa loro, riescono in quest’impresa?

Sono pienamente d’accordo. Per tale motivo occorre vagliare, con precisione con l’aiuto di tutti gli operatori impiegati nella formazione e degli strumenti a disposizione, la reale motivazione che spinge i giovani a tale impresa che non deve essere accorciata, facilitata, riuscendo a capire che uso i seminaristi fanno dei soldi, se lavorano un po’ per mantenersi. Se durante il cammino di seminario sono aiutati dalla Provvidenza, verificare se sono convinti quando avranno il loro stipendio di ridare una quota periodica al seminario che li ha mantenuti, ai poveri, alle necessità della Chiesa, per non vivere una vita borghese ma diaconale.