Nulla da festeggiare, dobbiamo costruire speranza

643 visualizzazioni
3 minuti di lettura

Festa del 1° maggio. Un anno di pandemia ha messo in ginocchio la Sardegna, il costo degli errori di programmazione

di Mario Girau

Difficile trovare motivi per celebrare, quest’anno, il 1° maggio. Quattordici mesi di pandemia hanno incrinato la fiducia verso gli uomini delle istituzioni, troppo lenti nel governare la difficile situazione in cui inopinatamente l’Italia si è trovata a causa di un virus micidiale che velocemente si moltiplica e si trasforma. Nella complessità di una vera e propria “guerra” sanitaria, l’Italia ha solamente tamponato, provvedimento dopo provvedimento, le enormi falle che si sono aperte a cascata nel sistema ospedaliero, nella scuola, nel pubblico impiego, nel mondo del lavoro, nei trasporti. L’anno scorso, condannati sempre a inseguire l’azione del covid, sorpresi e sconvolti dalla potenza del virus sconosciuto iconicamente rappresentata dal corteo di 30 camion militari che il 18 marzo trasportavano 65 bare dal cimitero di Bergamo in altre regioni.
Il 1° maggio del 2020, però, si aveva ancora la speranza che, dopo due mesi di lockdown, sarebbe tornata la normalità. Soprattutto in Sardegna, dove un po’ tutti ci siamo illusi, da giugno ad agosto, di essere quasi fuori dal tunnel pandemico. Non è stato così, purtroppo, come dimostrano 1.350 morti e oltre 53mila casi di positività in poco meno di 15 mesi registrati nella nostra Isola.
Non c’è nulla da festeggiare perché sono ancora evidenti le fatiche del sistema sanitario sardo nel far girare a pieno regime la macchina vaccinale, che procede a scatti, generando paure e insicurezza tra la gente, protesa verso la speranza di raggiungere l’immunità di gregge.
Soprattutto non hanno motivo di festeggiare i lavoratori, letteralmente travolti dagli effetti del coronavirus. La forza lavoro l’anno scorso è diminuita ad ogni trimestre rispetto al 2019: -1,4% nel primo, -10,5% nel secondo, -5,8% nel terzo, -7% nel quarto; mentre il tasso di disoccupazione si è attestato, a fine 2020, al 15,3%. Un maremoto occupativo nonostante il blocco dei licenziamenti e l’adozione di ammortizzatori sociali a causa Covid-19. Il 46% delle imprese sarde di tutti i settori chiuse per decreto, circa 52mila attività hanno lasciato a casa oltre 126 mila tra addetti e dipendenti. Tra i settori colpiti dal blocco, l’artigianato con oltre 26 mila imprese (circa il 70% del settore), poco meno di 70 mila lavoratori. Numeri che fotografano per difetto la crisi che ha colpito le imprese più piccole (a conduzione familiare, con due-tre dipendenti) che hanno lavorato solo parzialmente, a singhiozzo, perché senza richieste di prodotto, prive di materie prime, ricambi, dell’essenziale per tenere le serrande sollevate.In forte difficoltà anche 22.378 imprese edili, di cui 58,1% artigiane (13.011 realtà), che impiegano oltre 40mila addetti. Un quadro negativo completato dalle numerose imprese del terziario, alberghi e ristorazione, costrette a chiudere per decisioni proprie o per fallimento delle stesse iniziative imprenditoriali. Il primo trimestre del 2021 ha messo in luce dati ancora più negativi ed allarmanti rispetto agli stessi periodi di riferimento dell’anno precedente. L’ultima rilevazione INPS del 23 marzo 2021, documenta un flusso di pratiche relative all’intera varietà di ammortizzatori sociali di 141.370 pratiche, con numeri della Cassa Integrazione Guadagni e dei fondi di solidarietà decisamente lievitati rispetto all’anno scorso.
Non hanno nulla da festeggiare i giovani che devono fare i conti con una disoccupazione quasi al 41%, undici punti in più rispetto alla media nazionale. Non c’è nulla da festeggiare in questo 1° maggio, se non la capacità di resistenza dei sardi unita a pazienza e sopportazione. La pandemia ha rivelato drammaticamente gli errori compiuti negli ultimi decenni nella programmazione sanitaria, le mancate riforme della pubblica amministrazione, i ritardi nella realizzazione delle opere pubbliche, la dispersione scolastica, l’abbandono delle zone interne, la scarsa attenzione alle famiglie.
Questo 1° maggio obbliga invece a costruire speranze. È il compito della politica, che deve fare un profondo bagno di umiltà. Nessuna maggioranza è in grado di affrontare, da sola, le sfide che attendono la Sardegna per rispondere al cambiamento d’epoca provocato da Covid 19. Altre regioni sono pronte a ripartire, il loro tessuto economico sfilacciato dalla crisi  consente operazioni di ricostruzioni impossibili o troppo lente in Sardegna, dove tutto è in alto mare: transizione energetica (metano o idrogeno?), riconversioni industriali, sistemazione idrogeologica e urbanistica, modernizzazione del sistema turistico.
Mario Draghi – portato dal Presidente della Repubblica – si è messo alla guida di un governo di larga maggioranza per avviare l’operazione rilancio resa possibile dal recovery fund europeo. Solinas faccia lo stesso tentativo in Sardegna con un patto di “salute pubblica regionale” che coinvolga le forze responsabili della sinistra e il sindacato per la realizzazione di un programma condiviso. Per il bene dei sardi. Un sogno irrealizzabile? No, come scrive San Paolo “spes contra spem”.