Distanti eppur vicini: la preghiera ai tempi del Coronavirus

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La sospensione delle celebrazioni, dopo lo smarrimento iniziale, non ha scoraggiato i fedeli, uniti dalla riscoperta della preghiera in famiglia

di Valeria Carta

Erano circa le 19 dell’8 marzo quando iniziava a circolare la certezza che, in ottemperanza al DPCM nazionale, anche le celebrazioni nella nostra diocesi sarebbero state sospese. Mentre alcuni sacerdoti celebravano, senza saperlo, l’ultima messa con il popolo, i vescovi italiani si univano in questa decisione sofferta ma necessaria per dare un contributo alla situazione, così grave, del nostro paese. Già da tempo, nelle regioni del nord, la Chiesa aveva preso questa decisione: chiese aperte si, ma senza nessuna celebrazione o rito che prevedesse assembramento di persone e/o contatti troppo ravvicinati.
Nella nostra diocesi i primi inviti alla prudenza erano arrivati nelle settimane precedenti, richieste ai fedeli di non scambiarsi il segno di pace e raccomandazioni accorate di prendere l’Eucarestia con le mani. Fino alla serrata definitiva, dichiarata dalla Conferenza Episcopale Italiana, e seguita a ruota da quella sarda.
Questa scelta “dolorosa e triste”, come si legge nel comunicato, ha portato con sé uno strascico di smarrimento che ha colto per primi i fedeli, dubbiosi fino all’ultimo, se fosse una decisione definitiva o meno. Tutti si sono dovuti arrendere davanti all’evidenza dei messaggi dei propri pastori che, unendosi all’appello della Madre Chiesa, annunciavano la sospensione delle celebrazioni ma allo stesso tempo invitavano “a riscoprire la preghiera in famiglia, la meditazione della Parola di Dio e i gesti di carità”.
A una settimana da questa inappellabile decisione, nella nostra diocesi tante parole sono circolate tramite i social network e whatsapp. Incoraggiamenti, aggiornamenti ma anche tante richieste di preghiera, con l’intento di tenere unita una comunità che non può più ritrovarsi a celebrare insieme il sacrificio di Cristo.
E così i sacerdoti della diocesi di Iglesias hanno provato ad ingegnarsi per sopperire a questa mancanza. La “creatività”, invocata da Papa Francesco nell’Angelus della terza domenica di Quaresima, ha suggerito ai sacerdoti diocesani alcune possibili soluzioni per i fedeli costretti a casa. I più tecnologici si sono subito rivolti ai social che oggi traboccano di decine di messaggi di esortazione che vogliono almeno provare a combattere l’isolamento.
Sulle piattaforme social, sempre più luogo virtuale d’incontro delle giovani generazioni, anche loro vengono raggiunti celermente dal messaggio evangelico. Le dirette facebook si sono moltiplicate, impossibile fare il nome di tutti i parroci senza correre il rischio di dimenticare qualcuno, e sono diventate il mezzo più vicino e veloce per far arrivare il messaggio che “io resto a casa”, ma non sono solo, bensì con una comunità invisibile agli occhi ma unita nella preghiera. Questo perché, come ha detto il Pontefice, “uniti a Cristo non siamo mai soli”. Il Rosario, la Santa Messa e persino la Via Crucis, appuntamento immancabile in questo tempo di Quaresima, vengono trasmesse live sui mezzi di comunicazione alla portata di tutti, o quasi. Per gli anziani, meno avvezzi alle nuove metodologie di comunicazione, rimane il telefono, il modo più immediato per raggiungerli. E così si fa anche il giro delle telefonate giornaliere per sondare l’umore dei parrocchiani più avanti negli anni che però rappresentano la memoria di quella Chiesa che “ne ha superate tante”.
E mentre corrono sui mezzi digitali iniziative come “Celebrare e Pregare in Tempo di Epidemia”, un sussidio a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della Cei, oppure, dalla stessa matrice, l’invito a pregare il Rosario in famiglia la sera del 19 marzo, giorno della festa di San Giuseppe, tra le proposte concrete anche quella del parroco di Sant’Antioco, Don Mario Riu. Il titolare della Basilica dedicata al patrono della diocesi del Sulcis coglie la palla al balzo e propone che, il 18 marzo, anniversario del rinvenimento delle reliquie del martire, i cittadini espongano un drappo alle finestre. Nel giorno in cui si sarebbe dovuta riaprire la Basilica con solenni festeggiamenti, il gesto appare come un segno di vicinanza e comunione che ci rende “distanti ma uniti”. L’iniziativa affonda le sue radici nella consuetudine popolare che prevedeva proprio questo segno nel giorno della festa.
Un altro tentativo poi di colmare il vuoto dell’isolamento nella nostra diocesi è quello del parroco di Buggerru, don Marco Angius. Il Rosario che recita la sera risuona per le vie del paese costiero grazie ad un impianto audio che diffonde la preghiera e raggiunge tutti.
E poi c’è l’attività immancabile dei laici che, parte attiva della comunità religiosa in tempi ordinari, ora cercano di arrangiarsi come possibile. E allora ecco che si rispolverano i libri dei Santi che forse erano rimasti nel cassetto per troppo tempo e si scandiscono le ore della giornata con la preghiera, magari aiutati dalla programmazione tv o dalle amiche che ricordano puntualmente che “a Dio va sempre l’ultima parola”. Si cerca di mantenere uno spaccato di quotidianità che nell’isolamento, ci fa sentire improvvisamente più uniti che mai. Tanti i fedeli che non si arrendono, continuano la loro lotta in ginocchio, con il rosario in mano e perché no?! c’è chi si spinge anche oltre, con la preparazione delle liturgie pasquali: “perché quando tornerà tutto alla normalità, dobbiamo essere pronti”. In un momento in cui “le cose di questo mondo” ci vengono tolte, il dono più grande che ci rimane è la fede e per questo l’unico contagio a cui vogliamo ambire è quello della speranza.
Questo momento interroga le comunità che, tra smarrimento e resilienza, non vogliono fermarsi, ma anzi continuano a camminare con la consapevolezza che, con la fede, “andrà tutto bene”.

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